L’opera di Mats Bergquist sorge da una assenza. La sua presenza è una porta aperta verso l’ineffabile, la soglia che mai può essere oltrepassata, il termine della sua possibilità. La fonte di questa assenza è la vita, da cui sgorga l’acqua purificatrice di Ayiasma. Risalendo questa sorgente ci immergiamo nel suo silenzio, ove le porte contengono lo stesso vuoto da cui zampillano copiosi i Daruma. Il getto che di lì fuoriesce, è l’energia che già muove il passo di Tango, opera con cui, dall’indicibilità delle icone monocrome, prende sostanza la completa immediatezza dei Daruma. Dalla Porta – dalle icone – alla fonte, le opere dell’artista si concatenano come in un cerchio: ogni punto è inizio e fine del suo giro; per di più é fine e inizio, raddoppiando così la potenza dell’insieme.
Dall’inizio, la fonte perpetua e imprevedibile della vita è come un’immagine indeterminata, vincolata alla necessità d’una interpretazione che la tolga dall’impeto di questo fluire. Dalla fine, la stessa immagine è una porta aperta, ri-velata dalla possibilità del suo verso, nell’immanenza del suo racconto fatto di parole che ormai vedono. Quest’alternanza intuisce la dialettica fra il naturale scorrere della vita, imprevedibile sotto ogni suo aspetto, e la prevedibilità del logos che, in-sé, già esprime tutto il suo immaginale. Solo l’immaginabile è dicibile. L’inimmaginabile, l’indicibile, sono l’unità ch’è non altro che l’unione stessa: lo spazio invisibile del loro insieme. Appunto l’indicibile è la Porta di Mats Bergquist, oltre la soglia dei sensi e delle parole, nell’eterno della sua possibilità.
Le icone sono il frutto di un gesto paradossale, di un’opera attenta che ha il fine di dissolversi sulle superfici monocrome delle tavole. L’immagine – la genesi del suo significato – è negata, immersa negli strati di garza fissati mediante gesso, pigmento e cera alla superficie armata del legno preparato con colla di coniglio. Il gesto si distende verso il suo annullamento, producendo un’assenza. L’azione contraddice se stessa, realizzando la dialettica capace di individuarne l’antinomica presenza. Non v’è nulla oltre il sedimento di questo fare: l’opera è in-opera: attende: è potenza.
Con Tango, ma anche col cenno di Sorriso, la possibilità intima alla superficie del quadro si apre alla danza: esce decisamente dal suo indugio, dispiegandosi nella nuova opportunità di divenir scultura, di liberare ogni suo lato alla spazialità per cui già freme.
Insieme, le opere e l’artista, assumono un certo movimento, dove l’attesa del termine si decide nel balzo che sprigiona il gesto nell’immediato. La superficie piana delle icone, prima s’incurva convessa; slanciandosi poi nell’incedere di una piega, nell’ombra di un sorriso; finalmente ritagliandosi nella carta di Ayiasma, dando qui vita alle matrici da cui scaturiscono i Daruma. Come epifanie, racchiudono la sostanza del loro passato illuminata dalla luce del presente. Il tempo dilatato delle icone si fa adesso, i Daruma si danno in una dimensione meditativa piucché contemplativa: non restituiscono più uno spazio-tempo visivo, ma vivono nella sincerità tattile della loro esperienza.
Uscire dal quadro è entrare nel reale. La superficie pittorica è l’opportunità di un posto sempre altrove; la scultura è bensì presente, abita lo stesso spazio di chi la guarda, la sua attualità non è dilatata – o compressa – in alcuna spazialità temporale. Il visibile si fa avanti, esce dalla sua possibilità silenziosa per danzar nuovamente libero nella musica della vita.
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