Rest

Meditazioni sul vuoto, sulla luce, sulla pausa

Bruno Corà

I.

L’insieme delle opere realizzate ed esposte da Mats Bergquist nella sua mostra personale presso la Galleria della Fondazione Culturale San Fedele a Milano si impone subito agli occhi dei visitatori come un paradigma emblematico della sua opera ma anche come nuova ‘narrazione’ di sue recenti creazioni, del suo ininterrotto viaggio di lavoro. Per aver osservato negli anni una sensibile parte del suo cammino, ritengo che l’episodio milanese al San Fedele, per più di una ragione si rivela come l’ingresso di Bergquist nella maturità linguistica in ragione di un’esponenza sinfonica che attraversa le differenti forme di un’unica tensione generatrice.
Con il titolo Rest, che si estende idealmente alla varietà morfologica delle opere in mostra e il cui significato nella lingua inglese è “riposo”,”pausa”, Bergquist offre infatti un dispiegamento compendiario di modi poetici, concettuali ed elaborativi che si sono venuti manifestando a partire dalla metà degli anni Novanta a oggi. Se, in tutti i casi, egli mantiene costante nel suo interesse l’orizzonte estetico della sua collimazione nell’idea spaziale, che è totalmente interiore, mentale e niente affatto fisica o paesaggistica, di opera in opera, tuttavia, egli è proteso a focalizzare quel ‘vuoto’ che è principio generativo, la cui aspirazione è di farvi scaturire, attraverso l’assiduità e l’ossessività del gesto ripetitivo della pittura su tavola, un valore immateriale di luce, esito di un richiamo che confida, come in una preghiera, nel rivolgere ogni energia fisica e mentale verso quella luce stessa. Sospinto dunque da una dominante inclinazione alla scaturigine della luce, pressoché in ogni esperienza compiuta attraverso una proteiforme articolazione di esiti, quest’evento di Milano consente diverse riflessioni.
II.

Una devozionale attitudine alimenta i diversi cicli d’opera, alcuni dei quali tornano sulla forma e sulla tipologia estetica dell’icona, aspetto che ha investito molta parte della sua opera anteriore. E se i capisaldi per tale repertorio, che di seguito indicherò, devono essere individuati – come ho in altre occasioni suggerito – soprattutto nella pittura antica delle icone sacre, bizantine, russe ortodosse e greche, e nel ‘suprematismo’ della forma e del colore rivelato dalla pittura di Kasimir Malevic,
è pur vero che Bergquist è riuscito a trasfondere e trasportare quegli insuperati modelli in una declinazione di personalissimi modi che distinguono ormai la sua lingua pittorico-plastica da quella
di quei maestri e di alcuni contemporanei, pur a essi riconducibili, soprattutto nella pittura monocroma analitica o in quella neominimalista europea e nordamericana.
Si deve anche osservare che Bergquist non rinuncia,
ogni volta e da tempo ormai, a introdurre nella sua azione alcune narrazioni, o si potrebbe definirle semplici allegorie, che provocano aperture di senso ulteriori rispetto alla dimensione monotematica della luce o del suo rimando al sacro. E nella mostra di San Fedele a Milano se ne conta più di una di tali aperture, che val la pena far rilevare. Faccio riferimento per esempio proprio a quel Rest, 2018, che titola l’intera mostra. Si tratta infatti di un’opera, un frammento di rovere nero, ritrovamento da qualche imbarcazione rimasta sott’acqua nel Mar Baltico circa 300 anni, legno elaborato dall’artista fino a effettuarne una reliquia emblematica
che individuerebbe la soglia dell’ebreo errante Ahasverus,
soglia sulla quale – afferma Bergquist – a Cristo fu negato il riposo.
L’objet trouvé, dunque, si trasforma in fonte poetica e di immaginarie vicende.
Nondimeno, anche se investita da un diverso grado di impegno e di proiezione immaginifica, ci appare quella Nave votiva, 2017, gravata da un carico di nera materia combusta, cinerea, tenuta sospesa sopra il capo dei visitatori mediante due invisibili cavi che trasformano quell’agile e fantasmatico scafo vikingo in una ermetica e visionaria entità. L’artista ascrive alla affusolata forma – più o meno implicitamente – ulteriori valenze appartenenti alla cultura scandinava, ma, a ben considerare, essa si presta a suscitare echi e metafore che attraversano anche talune credenze religiose mediterranee soprattutto appartenenti alla tradizione greco-egizia, e infine alla dimensione tanatologica così come viene evocata nella poesia dell’Inferno dantesco a proposito del trasporto dei dannati sul fiume Stige ad opera del demone Caronte nella Divina Commedia.
Ma ad analoghi principi metaforici si conformano le opere Scala, 2018, a encausto su legno e pigmento su ferro, e Mano, 2016, una fusione in bronzo, entrambe aggettanti dalla parete verso l’osservatore, nell’ambiente. E se, in un caso, Scala visualizza una topologia improbabile per via del suo sviluppo afunzionale e impraticabile come una struttura ideale o di carattere onirico proiettata com’è dal muro nel vuoto, Mano invece è stata realizzata dal calco della destra dell’artista, protesa in un gesto di apertura accogliente che, in effetti, è ugualmente carico di potenzialità: sia del vuoto sensibile che mostra, sia di qualcosa assente-presente che lo possa ricolmare.
III.

Le proprietà del vuoto si manifestano nell’opera di Bergquist con varie fogge plastiche, in alcuni casi oggettivamente definite, in altri suggerendo o alludendo alla sua entità. Esso, peraltro, non riflette esclusivamente lo stato fisico quanto più spesso quello concettuale e poetico. È il caso di opere come Concavo/Convesso, 2017, encausto su legno di cui Bergquist ha fornito in precedenza la versione Convesso/Concavo bianco,2010 (cm 30 x 24), ma anche di Sentiero, 2015, opera pavimentale dove, su alcune delle tavole a encausto bianche che compongono l’insieme, si rilevano delle concavità che sembrano suggerire una pressione di impronte di ginocchia che modifica l’uniformità di quota della loro superficie. Peraltro, Sentiero si dimostra declinazione spazialmente più contenuta ma dello stesso tipo della Via Lattea 2010-11, già osservata nella Kunst-Station in Sankt Peter a Köln.
Alla stessa entità del vuoto ritengo si debbano ascrivere le tre tavole a encausto su legno (cm 120 x 90 ciascuna) di nero umbratile come soglie, denominate Bethlehem, 2008, evocanti le tre sacre porte di accesso al luogo della natività del Cristo, per le quali si passa solo chinando la testa. Un vuoto dunque immaginario in senso esortativo e mnemonico di un luogo vero esistente altrove. E d’altronde, anche la Porta finestra dopo Böcklin, 2011 (2 parti) o la Piccola porta , 2012, a suo tempo ammirate, alludevano, nello stesso modo, a ideali soglie da attraversare mediante il pensiero.
Infine, vi è una ulteriore dimensione del vuoto nell’opera di Bergquist che non si può ignorare; essa si presenta nella qualità della ‘pausa’, cioè come interruzione di un continuum materico o sonoro, scaturigine di un ritmo. Nell’opera Vintersaga +Vintersaga bis, 2017-2018, composta da dodici quadri grandi (cm 125 x 100 ognuo), cieli turchesi accompagnati da dodici icone bianche (cm 37 x 30 ognuna) con tracce scavate all’interno, di cui sono esposte solo quattro turchesi e quattro bianche, la disposizione sulla parete è regolata da un’alternanza tra le tavole rivolta a conferire una ritmica interna all’insieme, ulteriormente accentuata dagli intervalli di parete tra un’opera e l’altra.
Com’è noto, musicalmente è la pausa a consentire al suono di manifestare la sua distinta entità spaziale; non diversamente, in quest’opera di Bergquist la spazialità – già elementarmente propria a ciascuna tavola per l’elaborazione cromatica turchese cielo ottenuta a encausto, e parimenti per il bianco – si coniuga, si articola e si estende in virtù di calcolati rapporti di vuoto tra tavola e tavola; pertanto ogni tavola turchese è accompagnata da una tavola bianca come il binomio cosmico della Terra e la Luna e, insieme alle altre, pausa dopo pausa, conquistano la spazialità di un sistema ben equilibrato.
IV.

Il denominatore comune del Rest individuato da Bergquist regola altresì ogni altro insieme offerto alla visione. L’Iconostasi regolare, 2009 (costituita da 59 elementi lignei di diverse misure, dipinti a encausto di color nero) e l’Iconostasi regolare, 2017 (costituita da 48 elementi di cm 17 x 13 color bianco) sono disseminate sulle pareti a dar corpo all’iconostasi di immagini ormai assenti ma non meno cariche di potenziale luminosità che sta all’osservatore suscitare in se stesso, facendo risuonare interiormente la medesima intensità deposta su quelle tavole così a lungo elaborate dall’artista. Il Trittico, 2016-2017 (cm 176 x 300), il Dittico, 2016-2017 (cm 125 x 100) e ogni altra Icona bianca e Icona nera «tornano sempre alla non-immagine, alla forma vuota – afferma Bergquist – È là che abbiamo iniziato».
Mentre egli, ormai in possesso di un magistero linguistico, si accorge che da anni è intento a «provare a rappresentare l’aspirazione che ha un vuoto» oppure, come in Ayiasma 2, 2017, a scoprire che l’immagine è scomparsa dalle icone a forza di baci devoti, costringendolo a seguitare nel ricercare e ritrovare quel buio ‘illuminante’ che i versi di Gunnar Ekelöf, rivolti all’“immagine nera” definiscono:
«Tutto quello che abbiamo desiderato
consumato-da-baci
Tutto quello che non abbiamo desiderato
baciato e consumato-da-baci
Tutto ciò da cui siamo sfuggiti
consumato-da-baci
Tutto quello che desideriamo
una volta di più consumato-da-baci.»

Se tutto ciò coincide con la vita dell’artista, con la sua aspirazione e necessità di riempirla di senso, in ultima analisi si potrebbe pensare che le differenti versioni delle sue ceramiche raku Daruma, 2015, presenti in questa mostra di Milano, non siano anch’esse altro che ulteriori trasmutazioni del sentimento stesso dell’esistenza nell’emblema ovale della compiutezza.

Gioiello, Novembre 2018

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