En art il ne s’agit pas de reproduire ou d’inventer des formes, mais de capter des forces. C’est même par là qu’aucun art n’est figuratif.
Gilles Délestez
Mi sono ritirato nello stesso luogo e seduto allo stesso tavolo di quando dodici anni fa, nell’agosto del 2000, posi mano alla prima riflessione scritta sull’opera di Mats Bergquist. Torno sui suoi lavori e dunque anche sui miei passi, adesso che né loro né essi sono più gli stessi, anche se apparentemente in entrambi si manifestano numerosi aspetti che paiono i medesimi di allora; e ciò sarà, tra gli altri, uno degli argomenti interessanti su cui soffermarsi, dimostrandone invece le essenziali diversità e variazioni.
In questo nuovo esercizio ermeneutico si dovrà considerare che anche l’autore delle opere non è più lo stesso di allora, sottostando anch’egli, come tutto il resto, esperienza dopo esperienza, alla più generale impermanenza. Alla base di ogni successiva considerazione si devono prendere in esame alcuni elementi ricorsivi dell’opera di Bergquist che definirei strutturalmente connessi con la sua azione formativa ed estetica.Tra essi, non sono trascurabili l’operosità manuale, l’elaborazione consapevole delle materie impiegate nell’opera, l’aniconicità, i rapporti di misura interni a essa e quelli in relazione alle opere tra loro, nonché con l’ambiente accogliente; un’essenziale esercizio della mono- o bicromia, nonostante non si debba considerare il colore di volta in volta usato come uniforme; l’attenzione ai rapporti spaziali di contiguità, attiguità, distanziamento tra le opere; lo spessore, lo stondamento delle superfici, il numero delle parti o l’elementarità di esse; la ricerca di equilibrio morfologico e cromatico. Infine, non meno essenziale di tutto il resto, l’attitudine all’azione trasformativa del materiale in stato qualificato di opera d’arte, quale assidua concentrazione dell’atto artistico distintivo dell’antico modo claustrale ‘dell’ora et labora’.
Dipingere è pregare
Numerosi dunque sono gli aspetti su cui doversi soffermare e, primo fra tutti, quello relativo all’essenza dell’immagine. Essa, nel caso dei lavori di Bergquist, come ho già avuto modo di descrivere, non reca effigie.(1) Priva, dunque, di ogni aspetto mimetico, l’immagine dell’opera di Bergquist è l’esito di un ‘fare’ nel quale convengono molteplici fattori. Quello fondamentale e ineludibile è l’entità invisibile che, risultante dall’elaborazione della materia vivente lignea, strutturata in forma di tavola recante una curvatura, si manifesta e si fissa su di essa ad opera dell’azione intimamente orante dell’artista.
In più circostanze Bergquist ha affermato: «Ogni quadro deve essere una preghiera», aggiungendo la celebre affermazione di Goethe secondo cui l’artista deve lavorare, non parlare. Egli, pertanto, quando si accinge a concepire un’opera, oltre a sviluppare una fase di preparazione analoga a quella messa in atto dal pittore di icone, mediante pratiche consone al loro compimento, si induce parimenti in uno stato di concentrazione molto simile a quello che si richiede e si raggiunge nello stato orante. Lo scopo di tale concentrazione è il raggiungimento di un’energia, di una forza da trasmettere all’opera. Tra le pratiche della concentrazione, talune sono suscitate dal fascino stesso delle tecniche da impiegare nell’elaborazione della tavola lignea che mutua la forma e la struttura dall’icona antica: la scelta del legno, la preparazione della tavola, la stratificazione delle materie sovrapposte ad essa, il riscaldamento delle colle, la stesura del colore a encausto, tutto concorre a incrementare la volontà di riversare sul supporto preparato l’energia e le forze interiori con le quali si intende far venire alla luce l’immagine auspicata.
Il massimo impegno profuso da Bergquist in tale prassi consiste pertanto in un’azione preliminare compiuta su se stesso, un esercizio di svuotamento della pressione dei sensi rivolto a ottenere uno stato di sincerità, di coerenza e di semplicità – qualità indispensabili da doversi conseguire per essere trasmesse, insieme all’entità temporale, all’opera stessa. Il processo di elaborazione, contrariamente a quello della pittura ‘narrativa’, ‘figurativa’ e ‘decorativa’, è spogliativo, rivolto perciò, attraverso un’azione sottrattiva, a ottenere una semplificazione dell’immagine suscitata sulle superfici lignee con la semplice monocromia bianca o nera o in taluni casi bianca e nera, non uniforme, ma opaca e penetrabile dallo sguardo che sosti a lungo, con altrettanta concentrazione di quella impiegata dall’artista, sopra di esse. Ma cosa percepisce propriamente lo sguardo rivolto a un’opera che non ha segni né figure ma solo colore, peraltro non puro?
L’immagine
L’opera di Bergquist invita a una riflessione sull’entità dell’immagine, sul suo costituirsi, sul suo funzionamento. Non è questa la sede in cui si possa veramente dedicare una disamina approfondita a tale argomento, dato lo spazio relativo, ma per la circostanza sarà sufficiente a suggerirne la complessità ricordare che all’immagine e all’immaginario sono stati dedicati numerosi e approfonditi studi implicanti l’analisi psicologica, quella della percezione, la fenomenologia e la psicologia fenomenologica da parte di Hume, Husserl, Messer, Meyerson, Bergson, Leroy, Freud e numerosi altri, fino a Sartre e Nancy.
Nello studio di psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Sartre si pone subito il quesito: «Come potremo definire l’immagine? Apprendimento progressivo o sapere?».(2) Successivamente il filosofo risponde che «nell’immagine, il sapere è immediato (…) un’immagine non si apprende (…) si da tutta intera per quel che è, fin dalla sua apparizione».(3) Dunque egli ritiene che la coscienza non può imparare nulla di un’immagine che già non si sappia e che l’immagine non è uno stato solido e concreto ma coscienza stessa, sui ‘generis’. Per Sartre infine l’immagine è un analogon «un atto il quale mira nella sua corporeità a un oggetto assente o inesistente attraverso una continuità fisica o psichica che non si dà per proprio conto, ma come un “rappresentante analogico” dell’oggetto a cui si mira». Naturalmente la materia impiegata per realizzare l’immagine non è mai da sola all’altezza di farlo da sola ma è un ‘sapere’ che la conduce alla qualità di ‘analogon’ dell’entità da rappresentare.
Muovendo da altri interessi e circa mezzo secolo dopo, Jean-Luc Nancy afferma che «l’immagine è sempre sacra»(5), affrettandosi a definire il sacro come ciò che è separato, che resta a distanza e non si può toccare: con una sola parola il distinto. Ma l’immagine non è identificabile con ciò che la supporta, afferma lucidamente Nancy, piuttosto se ne distingue, costituendosi intimamente di impulso, energia, forza: e perché non di ‘sincerità’, ‘semplicità’, ‘passione’ come afferma lo stesso Bergquist?
Ma siamo sulla buona strada! Se il sacro è nella ‘distanza’, esso è sempre stato altresì una forza, un’intensità come lo è l’immagine e come lo è l’arte stessa, che è un’impalpabile distinzione. Come afferma ugualmente Nancy, «un ritratto tocca, (…) e ciò che tocca è un’intimità che si porta in superficie (…) Ogni immagine ha qualcosa del ‘ritratto’ (…) perché trae (…) estrae qualcosa, un’intimità, una forza». Quella di Bergquist è un’opera caricata dall’evocazione di una ‘sincerità-semplicità’, percepita in sé e distanziata fino alla frequenza dell’immagine ierofanica, in cui cioè si mostra il sacro.
Un taglio generativo
L’azione di Bergquist è dunque una continua inarrestabile ricerca di semplicità per arrivare a una chiarezza rivelatrice mediante la serenità dell’immagine. L’assidua pratica del ‘togliere’ che in Bergquist ha preso le mosse in gioventù dall’osservazione degli ornamenti eccedenti nelle chiese, nei paramenti adibiti al culto religioso, nelle decorazioni degli affreschi e nelle icone stesse da cui, non senza dramma, ha sottratto ogni rappresentazione per giungere alle sole immagini del colore bianco o del nero, entrambi memori di un’ombra aurea costitutiva delle antiche tavole, è divenuta atto di purificazione poetica e spirituale. Non senza rischi, come si sa, che altri, analogamente a lui, da Rothko a Lo Savio, a Klein – per evocare solo alcuni protagonisti della tensione verso l’immaterialità e l’assoluto dell’immagine – hanno voluto percorrere.
Ma il pericoloso ‘vicolo cieco’ possibile a cui il monocromatismo radicale avrebbe prima o poi condotto (verso cui si era già avviato lo stesso Bergquist e che, peraltro, non ha tuttora cessato del tutto di praticare) si è dischiuso, improvvisamente, negli ultimi anni, davanti al suo agire, con un’intuizione salvifica e rigenerativa, probabilmente perfino risolutrice del resto del suo percorso artistico. L’atto compiuto da Bergquist di ricavare dal seno stesso delle sue tavole-icone, come in una partenogenesi, attraverso un ‘taglio separatore’, parti che, pur distinte, seguitano a fornire qualità immaginifica e spaziale nonché compositiva all’opera, è uno di quei gesti precisi e identificativi, altrimenti definibile come ‘salto linguistico’ o svolta in una ‘koinè’ quale quella sinora messa a punto dall’artista di origine scandinava.
Nel capitolo “Lavorare con chiara visione”, in cui sono riportati gli insegnamenti di Dogen Zenji (1200-1253) fondatore della Scuola di Zen Soto, massimo filosofo nella storia del Buddismo, un interprete della sua sapienza come Kosho Uchiyama Roshi, nel commentare il testo, ne riporta un brano significativo: «Per ogni chicco di riso che deve esser consumato, fornite un chicco. Nel dividere un chicco, il risultato può essere due mezzi-chicchi, o possibilmente tre o quattro. D’altro lato, un chicco può essere uguale a un mezzo-chicco o forse a due mezzi-chicchi. Ancora, due mezzi-chicchi possono essere considerati un chicco intero. Dovete essere in grado di comprendere chiaramente quanto ne avanzerà aggiungendo un’unità di riso, o se sarà sufficiente levandone un’unità».(6) La citazione compiuta da Kosho Uchiyama si giustifica entro il più ampio argomento dei ‘calcoli necessari nella vita’, soprattutto per chi dovesse provvedere alla preparazione dei pasti per comunità di 1000 o 2000 monaci in qualità di tenzo, ovvero di responsabile di tale mansione.
Ma la ‘scoperta’ di Bergquist nel ‘dividere’ le sue tavole ricavando due o più parti riguarda quei ‘calcoli necessari nella vita’ per risolvere dilemmi apparentemente di poco conto, ma la cui soluzione è di resa determinante. «Quattro o cinque anni fa, dopo il taglio che ho fatto, si è aperto un mondo. Posso comporre, sono il maestro della superficie bianca, il taglio è il disegno. Invece di usare il pennello, la matita, faccio il taglio».(7)
Dal gesto di separazione compiuto sulle sue pitture, Bergquist si accorge di poter spostare l’azione suscitatrice dell’immagine dalla pittura alla scultura. Il rilievo delle sue tavole si articola in parti, si muove spazialmente, tende a staccarsi dal muro e ad affermare una plasticità auto sostantiva. Le opere mettono in risalto le rispettive stondature, le ombre tra loro divengono disegno. Tale appare l’esito nel Untitled (pag.34), in cui il semplice gesto di giustapporre in modo ‘disassato’ due tavole dalle superfici bianche e stondate, per effetto di una piccola ombra prodottasi, rende mosso l’insieme. Accanto alla dinamica compositiva si assiste a una novità sul versante della forma. Così, se nelle opere Broken Monochrome (pag. 37), T (pag.39), and H (pag. 38) la dialettica dei tagli effettuati rispettivamente nella forma del rettangolo e del quadrato disegnati con la proporzione 4/4 di base e 4/5 di altezza genera forme quadrate o rettangolari attigue, a loro volta commisurate a rapporti proporzionali ricavati rigorosamente dalle misure costruttive basilari, mantenendo perciò la forma delle opere essenzialmente analoghe a prima del taglio, in altri casi la forma muta profondamente. Tali infatti appaiono opere come Convex / Concave, 2010, Architrave, 2010-2011, Via Lattea, 2010-2011 o Venus, 2010-2011. Queste ultime compongono, insieme a Bethlehem, 2008, un repertorio di forme diversamente attive, collocate negli ambienti della Kunst-Station Sankt Peter di Köln, la cui nuda essenzialità gotica esalta i singoli lavori che in essa generano nuovi rapporti spaziali e un aumento dei gradi armonici e luminosi di cui l’antico edificio è già in parte dotato.
La pittura di Bergquist, che ha dischiuso in se stessa un’inedita dimensione plastica, ha parimenti generato una qualità formale dovuta al taglio separatore che, non diversamente dalla monocromia, deve potersi mantenere su un’assoluta essenzialità. Analogamente ai dipinti di Vilhelm Hammershoi (1864-1916), ammirato da Bergquist, in cui è il vuoto degli ambienti e l’assenza di orpelli in esso a rendere ‘sognata’ la loro qualità spaziale, nelle nuove opere di Bergquist la forma è pienamente giustificata dalla radicale elementarità del taglio separatore. Questo gesto, infatti, suscita il fantasma della parzialità e del frammento, evocativo di un’unità sacrificata in nome della continuità possibile della ‘preghiera’. Ogni nuovo volume, nato dalla separazione di parti ricavate nell’unità formale, evoca la differenza residua di un organismo integro, un tempo cattedrale, strada, cimitero, ma anche nicchia o ciotola o mani congiunte che porgono qualcosa. La valenza evocativa e ierofanica dell’opera, che nell’azione di Bergquist appare ricercata e molto spesso raggiunta, sembra altresì poter costituire una ragione pienamente motivata tanto dell’esercizio monocromatico quanto del taglio separatore. Fosse stato anche solo per la semplice possibilità a lui ormai consentita di affermare: «Io so fare un quadro bianco, sono maestro di una forma bianca».
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