Tutto si gioca nella tensione verso una dimensione ulteriore – dalla superficie al volume, dalla figura al cubo, dal disegno al taglio. È come se il limite fissato di volta in volta esplodesse – ma in maniera quasi statica, senza movimento apparente – e tracimasse nell’estensione successiva. A imporsi allora è la composizione. Pittura e scultura si richiamano per ricercare delle coordinate spazio-temporali incrinate, arcuate, concave o convesse, comunque articolate, colte spesso nella minima variazione dei piani, nell’ombra minuta e perfetta prodotta da uno scarto lieve che apre al qui e ora di un nitore esatto. Del resto, è tutto iscritto nella potenza della tavola. Il legno dell’icona, infatti, viene lavorato dopo la stagionatura e assemblato a incastro con l’ausilio della colla di coniglio. Le traverse sono lì per scongiurare le deformazioni del legno. L’incavo, o addirittura il doppio incavo, rende possibile il lavoro sullo spessore e quindi l’aggetto, lo sbalzo. È già la messa in opera di tutta una volumetria in nuce che tende celatamente a problematizzare la superficie e complicare la stesura dei colori. L’utilizzo, poi, della tecnica dell’encausto permette a Bergquist, mescolando i pigmenti alla cera, di lavorare sull’assorbimento e la fissazione quasi che il supporto venisse sollecitato e spinto a dar fondo al suo essere materia animata, forza vitale. In effetti, si tratta di un’arte fortemente organica nella quale le connessioni e le alterazioni dei vari materiali danno vita a intelaiature e strutture che alludono, nella loro ascetica ed essenziale semplicità, a regolarità più profonde. Così il colore – il bianco e il nero o la monocromia soprattutto bianca o nera, ma anche gli sporadici inserti azzurri e rossi in alcune opere – sono meno la cancellazione progressiva della figura, e dunque la figura dell’assenza della figura, come dice Daniel Arasse a proposito di Rothko, che l’esaltazione della forma scultorea assunta dalla materia lavorata. Quella di Bergquist è una pittura delle potenzialità della materia, dove l’aniconicità è funzione eccentrica di un’immagine che si dà unicamente nel rimando all’inattingibilità del reale a cui fa segno.
Tale ripresa di una certa scienza dell’icona è particolarmente evidente nel ciclo intitolato Consumata-da-baci. Una sorta di costruzione simile a un infisso dove però il telaio non presenta alcuna parte apribile. È tutta chiusa pur circoscrivendo un’apertura. Ciò che si dà a vedere è un foglio bianco con delle scritte semicancellate, carteggiate a lungo pazientemente – «consumate», appunto. La spessa cornice crea tra il primo piano e lo sfondo un’intercapedine, un interstizio, un vuoto. Ma,essendo lo sfondo nero, la figura ritagliata sul foglio sembra stagliarsi anch’essa pressoché in primo piano senza soluzione di continuità. Si tratta, dunque, di un trompe-l’oeil rovesciato, dove al posto dell’illusione di un oggetto tridimensionale dipinto su una superficie bidimensionale avviene il contrario, e cioè l’illusione della bidimensionalità prodotta paradossalmente dalla tridimensionalità. Davanti, in terra, è posto un Daruma, una ceramica raku dalle fattezze geometriche levigate e astratte che ricorda nel nome le bambole votive giapponesi dedicate a Bodhidharma, il primo patriarca Zen. L’effetto è quello di uno spostamento di baricentro verso il basso a creare una sorta di piega gravitazionale entro cui il fruitore si trova catturato.
Ecco allora la questione: sia al di qua che al di là della soglia-foglio con le scritte consumate, e consumato esso stesso, sia nella semicircolarità centripeta operata dalla massa-Daruma nel tessuto dello spazio-tempo, tutto avviene alle spalle di chi guarda, per cui ci si trova già da sempre dentro uno spazio a curvatura variabile dove la stessa illusione – l’immagine – lavora per ancorare lo spettatore all’esperienza della realtà nel suo accadere finalmente acherotipo, ossia non fatto da mano umana. È a questo accadere che è volta l’opera di Bergquist.
Contact me