Arte Directory - 2016

Ero soltanto

Gianni Ettore Andrea Marussi

Il titolo prende spunto da un haiku, la tradizionale forma di poesia breve giapponese, di Kobayashi Issa:

Ero soltanto.
Ero.
Cadeva la neve.

La mostra nasce dalla costante e consolidata collaborazione tra l’artista svedese Mats Bergquist (Stoccolma, 1960) e la Galleria Grossetti. Da qui la scelta di presentare una selezione di lavori già conosciuti insieme alle sue più recenti creazioni di grandi e medie dimensioni.
Si è accolti da quelle che a prima vista paiono uova o sfere primordiali, realizzate in ceramica raku (l’antichissima tecnica giapponese, nata in sintonia con lo spirito zen), in realtà sono i “Daruma”, bambole dharma (figure votive giapponesi che rappresentano il fondatore dello Zen), che rendono impossibile resistere al desiderio di accarezzarle. Appaiono poi tavole monocrome, giocate sui colori del bianco, del nero, realizzate con la tecnica antichissima delle icone. Al ciliegio, il tiglio o il pero ungherese sovrappone diversi  strati di tela finissima di lino, trattati con colla di coniglio, gessi e pigmenti, utilizzando anche la tecnica dell’encausto, usata dai romani, dai greci e anche in Egitto. Questa antica tecnica pittorica utilizza i pigmenti mescolati con cera punica e devono venir liquefatti dal calore. Ecco, il fuoco è una delle componenti che interviene sempre, come per la ceramica.

Alle pareti a partire da “Enso”, in giapponese cerchio (simbologgia forza, illuminazione, universo), l’illusione è quella di trovarsi di fronte un’opera piana, ma invece il nero del cerchio è scavato e rivela nuovi spazi. Così anche nelle altre pareti ciò che sembra non è. Come per le tavole quello che sembra emergere come un rilievo è invece una differenza di piani. Si oscilla tra lo yin e lo yang, tra il bianco e il nero, tra il pieno e il vuoto, è come nel movimento circolare del Taijitu.
I materiali e la religiosa e paziente lavorazione, che necessita di lunghi tempi di attesa e di sedimentazione, rendono pienamente questo spirito riflessivo e contemplativo, che opera per sottrazione. Il fare artistico è un percorso zen.
La forma, tra l’apparire e l’essere, si trasforma in sostanza, in una coniugazione elegantissima di essenza zen.

La ricerca e la rivelazione del sé avvengono attraverso eventi umili e quiete manifestazioni della natura, nella tranquilla trasformazione del mondo operata dalla neve, che sottrae ogni colore al microcosmo quotidiano, rivelandone l’essenziale.
Lo stesso avviene nelle opere di Mats Bergquist, caratterizzate inizialmente dalla rimozione del colore, fino alla sua totale assenza, come nelle opere presenti in mostra: un’azione sottrattiva volta all’estrema semplificazione, quasi un atto di purificazione, tanto artistica quanto spirituale. In questa ricerca dell’essenziale l’icona diviene la forma ideale di rappresentazione, un substrato di legno pazientemente trasformato, grazie alla tecnica dell’encausto, in un continuo di superfici in parte lucide, in parte opache, che brillano o assorbono totalmente la luce.
Ne sono esempio Shadow of a Smile (2014), i diversi elementi de La Via Lattea (2010-2011) e il più recente Enso (2016), basato sul simbolo giapponese significante illuminazione, forza, universo, che richiama l’energia che l’artista trasmette alle opere attraverso l’assiduo lavoro.

Accanto a loro, una decina di Daruma (2014), realizzati con un’altra antica tecnica della tradizione giapponese, la ceramica Raku, in cui permane la semplice monocromia bianca o nera. Essi evocano le bambole simboliche dedicate a Bodhidharma, il monaco fondatore del buddhismo zen, un altro riferimento alla cultura giapponese.
In dialogo con i Daruma sono presenti alcuni Ayasma (2015), fogli di carta candida su cui è trasposta in pigmento la forma dei Daruma: un vuoto comunque pieno di esistenza, perché nasce dal continuo lavoro sottrattivo dell’artista, definendone il suo essere e affermandone la presenza. Come nell’esistenza umana in terra, il tempo sottrae fisicità al corpo sostituendolo e dando forma a quel vuoto “pieno di un’energia pura”, ora visibile. Questo spazio, colmato dell’ombra gettata da un “architrave” posto all’inizio di un percorso, conduce alla conoscenza del sé.

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